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Pace in Ucraina

LA PACE PRIMA DI TUTTO

Ucraina, un anno di guerra

Martedì 28 febbraio alle 20.45 all’Auditorium “E. Ramin” in via Rigotti a Cadoneghe, in collaborazione con la sezione SPI CGIL di Cadoneghe, con il patrocinio del Comune di Cadoneghe organizziamo un incontro per approfondire la situazione in Ucraina a un anno dall’invasione russa.

Ne parliamo con:

▶️ Alessandro Maran, autore del libro “Nello specchio dell’Ucraina” e parlamentare PD dal 2001 al 2018

▶️ Lisa Clark dei “Beati i costruttori di Pace”

▶️ Aldo Marturano, segretario CGIL Padova

Coordina Antonio Giacobbi.

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VOTA IL PROGETTO “CADONEGHE RESISTENTE”

VOTA IL PROGETTO “CADONEGHE RESISTENTE” AL BILANCIO PARTECIPATO 2022


Anpi sez. Sparviero ha partecipato al Bando “Bilancio Partecipato 2022” del Comune di Cadoneghe con il proprio progetto “Cadoneghe resistente. Un itinerario per (ri)scoprire le radici della nostra libertà.”


Ora i cittadini hanno la possibilità di scegliere il nostro progetto votandolo! La votazione potrà essere effettuata dal 15 al 30 Novembre 2022 inviando una mail all’indirizzo: protocollo@comune.cadoneghe.pd.it, indicando il nome del progetto scelto e allegando un documento in corso di validità.


Per maggiori info: Proposte di progetto Bilancio Partecipato 2022 Ammesse alla votazione dei cittadini | Comune di Cadoneghe


Contiamo sulla tua collaborazione per vedere concretizzata questa importante iniziativa! Qui di seguito i dettagli del progetto.

L’ANPI sezione Sparviero di Cadoneghe propone la realizzazione di un itinerario della Resistenza, da realizzare con la collocazione, in luoghi del nostro Comune in cui si svolsero avvenimenti importanti della Lotta di Liberazione e comunque alla Resistenza simbolicamente legati, di targhe e pannelli esplicativi di avvenimenti e personaggi.
La scelta nasce dal fatto che la Resistenza, a Cadoneghe, conobbe larga e diffusa partecipazione; ebbe in cittadini di Cadoneghe protagonisti importanti: tra tutti, Raimondo e Romeo Zanella, Guido Franco, Virginio Benetti, ma non dimentichiamo le donne partigiane, così numerose.
La Resistenza fa parte, quindi, dell’identità della nostra Comunità, e attraverso questa iniziativa intendiamo diffonderne il ricordo e la conoscenza anche grazie ai nuovi strumenti digitali. I pannelli avranno infatti un QR CODE per la visione sul posto di video che illustreranno i personaggi e gli eventi.
Alcuni luoghi individuati sono: la casa natale di Guido Franco, via Bordin, luogo della Casa del Fascio, cippo dedicato alle partigiane, tempio di sepoltura dei partigiani al Cimitero, casa natale di Bruno Munaro, Casa Benetti, cippo all’incrocio per il terraglione ecc.
Prevediamo di coinvolgere l’UDI, l’Istituto Comprensivo e il Liceo Marchesi, già molto attivi nella ricerca e nello studio di quella importante pagina di storia locale.

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I fucilati alla caserma Pierobon del 17 agosto 1944: la commemorazione di Maurizio Angelini.

Maurizio Angelini, agosto 2019. Il suo discorso alla Commemorazione ufficiale dell’eccidio fascista del 17 agosto 1944.

(tratto dal sito dell’ANPI PADOVA)

***

Il diciassette agosto 1944 è un giorno tragico nella storia della guerra e della Resistenza Padovana. La città conosce la prima grande esecuzione organizzata; tre impiccagioni nella centralissima via Santa Lucia, Clemente Lampioni, Flavio Busonera, Ettore Calderoni. Impiccagioni volutamente pubbliche, organizzate per “dare un esempio” a cui vengono tenuti ad assistere, in servizio, decine di impiegati degli uffici pubblici. Sette fucilazioni alla schiena, eseguite in questo cortile della Caserma, a carico di Luigi Pierobon (decorato di Medaglia d’Oro, cui la caserma viene dedicata subito dopo la guerra), Saturno Bandini, Primo Barbiero, Cataldo Presicci, Antonio Franzolin, Pasquale Muollo, Ferruccio Spigolon.

Come ben sapete l’eccidio del 17 Agosto venne presentato dai fascisti e dai nazisti come rappresaglia per l’uccisione del Tenente Colonnello dell’esercito fascista repubblichino Bartolomeo Fronteddu, che era stato abbattuto da un commando proprio fra via Santa Lucia e via Marsilio da Padova, attorno al mezzogiorno del 16 Agosto. Rappresaglia eseguita con estrema rapidità e, soprattutto per le esecuzioni mediante impiccagione, in modo particolarmente crudele.

La ricerca storica, in particolare la monumentale e fondamentale opera di Francesco Feltrin “La lotta partigiana a Padova e nel suo territorio”, ha evidenziato come ci siano molti elementi che rafforzano l’ipotesi che nemmeno di rappresaglia antipartigiana si trattò ma di una voluta e criminale lezione alla Resistenza, che attribuiva alla stessa una responsabilità – l’uccisione di Fronteddu – molto probabilmente alla Resistenza estranea.

Ho riletto in questi mesi gli atti del processo al Prefetto Repubblichino di Padova, Federigo Menna, celebratosi davanti alla Corte di Assiste Straordinaria di Padova nell’ottobre 1946 con Menna latitante, irreperibile e contumace, atti conservati all’Archvio di Stato di Padova: processo in cui Menna era imputato oltre che di collaborazionismo con il tedesco invasore, di avere deciso e organizzato rastrellamenti, spesso conclusi con omicidi a carico di partigiani e renitenti, sia in provincia di Rovigo, come prefetto di quella provincia, sia, a partire dai primi di Agosto 1944, in provincia di Padova, alla cui Prefettura era stato promosso. Ebbene il collaborazionismo di Menna, principale autorità del Governo fascista a Padova e insieme strettamente legato e subordinato all’occupatore tedesco, fu dimostrato senza difficoltà alcuna. Ma quanto alle esecuzioni del 17 Agosto ricostruite in sede istruttoria e processuale, dal processo emerse che esse neppure potevano essere qualificate come rappresaglia alla attività partigiana, ma come crudele azione dimostrativa di terrorismo. Le dichiarazioni prestate sotto giuramento da agenti della Prefettura in servizio come telefonisti nell’agosto 1944 parlarono chiaramente di dialoghi, da loro intercettati, fra il Prefetto Menna e il tenente Calafati, un italiano arruolatosi con le SS, in cui Calafati stesso, nei giorni frenetici fra il pomeriggio del 16 e quello del 17 Agosto, avvisava Menna che l’uccisione di Fronteddu era un omicidio comune eseguito su commissione; lo stesso Calafati depose confermando la natura non politica dell’uccisione di Fronteddu e ricordando che perfino lui, ufficiale nazista, aveva cercato, invano, di convincere Menna che, mandando a morte i dieci che oggi ricordiamo, si colpivano degli innocenti; l’avvocato Paolo Toffanin, che era intervenuto presso le autorità fasciste e naziste per cercare di salvare Flavio Busonera, confermò sotto giuramento che “dopo la rappresaglia diventò notorio che l’uccisione di Fronteddu era dovuta a ragioni di gelosia”. La sentenza della Corte di Assise Straordinaria contiene, nelle sue motivazioni, un richiamo molto forte alla natura non politica di questo eccidio e accentua, quindi, l’abiezione aggiuntiva del comportamento di Menna.

La lettura degli atti processuali mi ha messo direttamente a contatto con la vicenda meno conosciuta di un altro fra i martiri qui fucilati il 17 agosto, un ufficiale di carriera dell’Esercito, il maggiore di origine pugliese Cataldo Presicci. Egli era in servizio come maggiore del Commissariato a Dolo, era in contatto con i partigiani, quasi sicuramente fornì loro informazioni e supporto per un assalto compiuto nottetempo dai patrioti cattolici della Guido Negri in collaborazione con i garibaldini del Battaglione Sparviero a caserme dell’Esercito e della GNR, conosciuto come la beffa di Dolo, che si svolse con successo, senza spargimento di sangue, alla fine di maggio del 1944 con notevole bottino di armi e materiale di casermaggio. Presicci però venne arrestato e si trovava in carcere a Padova, quando venne “prescelto” per l’esecuzione. Di lui si rinviene in quelle carte un ricordo dolente e dignitoso nonché una altrettanto dolente richiesta di giustizia stese dalla vedova, signora Concetta Pavone vedova Presicci, come allora ci si firmava.

Sempre negli atti processuali si trova la dichiarazione di un’altra vedova, la signora Milena Cracco di Valdagno. Era la moglie e sarà la vedova del partigiano Saturno Bandini, anche lui fra i martiri, qui fucilati, del 17 Agosto. Bandini era nella stessa brigata garibaldina, la Stella, di cui era comandante la medaglia d’Oro Luigi Pierobon: la Stella, nata dal gruppo di Malga Campetto, sopra Recoaro, era andata grandemente ingrossandosi a partire dal febbraio 1944 e agiva nella Valle dell’Agno. Il 22enne tenente di complemento Luigi Pierobon, l’intellettuale cittadellese cattolico, divenuto il partigiano garibaldino Dante, fu della Stella il comandante audace, giusto, amatissimo dai suoi uomini; partecipò ad azioni importanti, come l’assalto al Ministero fascista della Marina della RSI, allora trasferito a Montecchio Maggiore; morì qui, dopo aver inviato una lettera struggente e dignitosa ai suoi cari. Saturno Bandini, romagnolo di origine, maturo e quasi anziano, commerciante, che gestiva una mensa ad Arzignano, svolgeva nel movimento partigiano prevalentemente funzioni di collegamento e di intendenza: la vedova ricorda, anche qui con dolore ma chiedendo giustizia, che il marito era stato avvicinato al lavoro con una scusa da un gruppo di persone (erano dei fascisti della GNR) e da questi portato via di forza a bordo di una Fiat Millecento: era l’11 agosto 1944. Dopo di che la Cracco non aveva saputo più nulla del marito, un vero desaparecido dell’epoca. Bandini venne portato dai fascisti a Padova e qui incarcerato. Solo verso la fine di Agosto 1944 era salito a Valdagno da Padova un sacerdote, un certo Pietro Mason, che aveva narrato alla signora di aver assistito Saturno Bandini, il 17 agosto, prima della fucilazione: di Saturno le consegnava un rosario insanguinato e una somma in denaro che in parte il marito destinava alla celebrazione di messe in suo suffragio a Monte Berico.

Racconto queste storie meno conosciute perchè i nomi dei nostri martiri non siano solo nomi su lapidi, ma persone, delle quali per quanto possibile vogliamo ricostruire l’umanità, e, se volete, la normalità. Racconto queste storie e vi propongo una analisi del vissuto e del compiuto da queste persone, intellettuali come il medico socialista e comunista Flavio Busonera e il giovane letterato cattolico Luigi Pierobon, operai e contadini come Barbiero, Muollo e il giovane renitente Spigolon, commercianti comunisti come l’anziano Bandini, persone sicuramente vissute per anni nell’illegalità come Clemente Lampioni, che del comandante Dante e della Brigata Stella fu il commissario, e che con la lotta partigiana e una morte coraggiosa riscattò con gli interessi, con dignità ed eroismo, una vita difficile e piena di gravi errori; militari di carriera che aiutavano, a rischio della vita, la Resistenza come Cataldo Presicci. Diversissimi per età, per condizione sociale, per convinzioni politiche: ma tutti, con responsabilità e ruoli molto diversi, dentro a un movimento, la Resistenza, che fu la grande e gloriosa parentesi di un popolo che aveva aperto, con ritardo, gli occhi sulle menzogne e sulle rovine della dittatura fascista. Di questo risvegliarsi, di questo riprendere coscienza, di questo esigere di voltare radicalmente pagina i nostri dieci martiri sono stati – etimologicamente – testimoni e interpreti.

Senza rancore e livore va detto che, se è normale che a 75 anni da quegli eventi, il ricordo di queste persone si stinga, ed è nostro dovere supplire con le “armi” della ricostruzione storica e della memoria pubblica per rallentare un processo inevitabile, non è però normale e accettabile che quelle persone e i loro familiari, le vedove, gli orfani, ma decine di migliaia di caduti, partigiani, renitenti, civili non abbiano avuto giustizia. Richiamo ancora la lettura delle carte processuali: nel processo di Ottobre 1946 Federigo Menna fu condannato a morte mediante fucilazione come collaborazionista e come omicida. Il suo legale presentò un ricorso in Cassazione, che venne deciso nel gennaio 1950; un ricorso, fra l’altro tutto fondato su un ritratto di Menna, che era stato capo della provincia di Padova , come strumento fragile e debole, quindi poco responsabile, nelle mani dei perfidi tedeschi, la negazione dell’onore e della fedeltà ai camerati tedeschi di cui i repubblichini si fregiavano e di cui i loro nostalgici ancora follemente si fregiano; ricorso respinto dalla Corte Suprema, pena confermata ma commutata nell’ergastolo perchè l’Italia Repubblicana aveva giustamente abolito la pena di morte. Federigo Menna, come sapete, non ha fatto un giorno di carcere; si rese irreperibile nei giorni della Liberazione, già negli anni Cinquanta era in Argentina, dirigente di una Associazione degli Italiani all’Estero: non mi risulta che nessun governo italiano, per rispetto ai morti del 17 Agosto, gli abbia mai richiesto di espiare alcunchè.

Coimputato con Menna per colaborazionismo era un colonnello dei regi carabinieri, un certo Caroelli, uno dei non molti carabinieri che avevano aderito alla RSI, che erano entrati con convinzione, almeno stando alle sue dichiarazioni e ai suoi comportamenti ufficiali, nella GNR e che della GNR era diventato il comandante provinciale di Padova. Ebbene Caroelli venne assolto, nell’Ottobre 1956, dall’accusa di collaborazionismo perchè gli si riconobbe di avere agito in stato di necessità, di aver obbedito, cioè, ad ordini superiori. Senza livore e senza rancore ricordo che, superando per senso del dovere e per fedeltà al giuramento prestato lo stato di necessità, migliaia di carabinieri, dagli ufficiali superiori agli appuntati a tanti carabinieri semplici non aderirono alla repubblica fascista ma andarono internati in Germania, e centinaia si dettero alla macchia in Italia combattendo nelle formazioni partigiane.

E ancora una normale esigenza di giustizia e di rispetto per chi qui cadde autenticamente per la libertà, e non solo il 17 Agosto 1944 (gli ultimi tre, i gappisti garibaldini Franco, Lazzaretto e Nalesso furono fucilati il 15 Aprile 1945) ci chiede di andare a fondo sulla questione, per me ormai abbastanza chiara, dei nomi dei fucilati in questa caserma riportati sul cippo commemorativo: allo stato attuale della ricerca è molto improbabile che i tre fucilati del 15 settembre 1944, i veri uccisori di Fronteddu, abbiano avuto a che fare con la Resistenza e il movimento partigiano; si vada a fondo con la ricerca storica e il nome di chi non è stato condannato a morte perchè combattente o anche renitente caduto per la libertà ma perchè ha compiuto un omicidio comune venga espunto dal cippo. Per tutti pietà, solo per i patrioti, i combattenti e i morti per la libertà, pubblico ricordo e onore.

Questo è un discorso rievocativo, fatto a nome delle Associazioni Partigiane, in una cerimonia istituzionale, in un luogo istituzionale come una caserma del nostro Esercito. Nessuno può approfittare dell’occasione per tirare dalla sua parte la lettura della storia, tanto meno per forzare l’attualizzazione di quegli eventi, che sono di tutti i democratici, gli antifascisti, i cittadini che, nella diversità delle opinioni politiche, amano la nostra Repubblica e la nostra Costituzione.

Credo che ci accomunino però alcune convinzioni che provo ad esprimere, andando alla conclusione.

Siamo qui a ricordare un episodio della Resistenza Padovana, perchè dalla lotta di Liberazione è sorta senza ombra di dubbio la nostra Repubblica democratica, retta dalla nostra Costituzione. Nessuna mitizzazione della Resistenza armata, pieno riconoscimento di tutte le altre forme di Resistenza disarmata e civile, rifiuto di attribuire a una sola parte politica, qualunque essa sia, primogenitura o maggiorascato sulla Resistenza. Ma nessuna parificazione, nessuna equidistanza, tolleranza zero per tutte le forme di neofascismo, che mettono assieme un giudizio anche solo benevolo sulla RSI con il razzismo e odio del diverso, che del fascismo attuale sono costitutivi.

I nostri morti del 17 Agosto 1944 erano diversissimi tra loro e in questa diversità stette la forza della Resistenza: il riconoscimento della diversità come valore è il sale della democrazia. La Resistenza si fece non solo per cacciare dall’Italia e dall’Europa fascismo e nazismo che volevano conquistare terre e comandare masse di sottoposti o di schiavi; ma si fece anche perchè cadessero e non si ricostituissero regimi fondati su un uomo solo, un partito solo, un gruppo solo al comando. Si fece, quella Resistenza, armata e disarmata, perchè non ci fosse più un capo dotato di pieni poteri, ma un popolo che, nella sua diversità e nelle sue differenze, costruisce e sperimenta il potere più diffuso. Un potere che non schiaccia, non è mai assoluto, è sempre sottoposto a verifiche, controlli e limiti.

Cari nostri,Busonera, Calderoni, Lampioni; Pierobon, Barbiero, Presicci, Bandini, Spigolon, Muollo, Franzolin: uscite dall’oblio, tornate vivi, aiutateci a fare il nostro dovere di cittadini.

Onore alla Resistenza e ai suoi Caduti, e in quel ricordo viva e migliori la nostra Patria.

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LA LIBERAZIONE A VIGODARZERE.

IL RACCONTO CURATO DA FERNANDO SALMASO ED EDOARDO RANZATO.

In occasione della ricorrenza del 25 aprile, il Partito Democratico di Vigodarzere, nella propria pagina Facebook, ha proposto una ricostruzione molto interessante, curata da Fernando Salmaso ed Edoardo Ranzato, di ciò che accadde in quel comune nei giorni della Liberazione. E’ un racconto molto dettagliato e curato, che merita di esser letto. Un ringraziamento ai due curatori del testo.

GLI ULTIMI GIORNI DELLA GUERRA

Erano gli ultimi giorni di una guerra che aveva provocato lutti e miserie, gli ultimi giorni di una guerra civile, che aveva separato un popolo.

Ai primi di aprile del 1945, la situazione è in fermento, gli alleati stanno iniziando l’offensiva nel settore tirrenico, ed i comandi partigiani si sono assunti il compito di impegnare i nazifascisti sulla linea gotica, la linea del fronte che si estendeva dalla provincia di Massa-Carrara, in Toscana, fino a Pesaro, nelle Marche.

Il 10 aprile, Il CNL, Comitato Nazionale di Liberazione, invia alle forze partigiane quella che viene chiamata “Direttiva 16”, dove si avvertono i combattenti che l’ordine insurrezionale è prossimo, e che lo scopo delle formazioni partigiane è quello di evitare la ricostruzione, a nord, di un esercito nazifascista, con lo scopo di evitare il prolungarsi della guerra. Nella pratica, bisognava rallentare il passaggio delle truppe tedesche e collaborazioniste nel loro viaggio verso il passo del Brennero ed il Passo del Tarvisio. Vigodarzere era una delle località di transito per arrivare al Brennero.

Il 21 aprile la città di Padova inizia ad odorare che c’è qualcosa nell’aria, quando viene deciso che chiunque parli della recente liberazione di Bologna finirà in galera.

L’inizio della rivolta popolare avviene a Cittadella, il 24 Aprile, dove alcuni presidi tedeschi vengono presi dai combattenti partigiani. Pieve di Curtarolo viene liberata dalla brigata di ispirazione cattolica “Damiano Chiesa III”.

IL 25 APRILE NEL PADOVANO

Nella città di Padova, il 25 aprile l’ordine di insurrezione non è ancora arrivato, causando grande delusione tra i partigiani, i quali però utilizzano il tempo rimanente per ammassare armi ed uomini nel pensionato Antonianum gestito dai gesuiti, di fronte all’orto botanico di Padova.

A Vigodarzere, intanto, nella notte viene occupata la caserma della GNR, la Guardia Nazionale Repubblicana, da un reparto di partigiani. Il 26 Aprile, mentre a Padova iniziano le trattative per ottenere la resa della Repubblica Sociale Italiana, a Vigodarzere si hanno avvisaglie di come saranno questi ultimi giorni di guerra.

MUOIONO SOLDATI TEDESCHI

Nel pomeriggio del giovedì, 3 partigiani salgono sul campanile di Vigodarzere che, essendo adibito a rifugio antiaereo, era sempre aperto. Questi vi stabilirono un posto di vedetta, ed al passaggio di una colonna di militari tedeschi, che arrivava da Saletto, aprirono il fuoco. Muoiono 3 soldati, ma la colonna non si ferma, prosegue qualche centinaio di metri, dove viene fermata da un comando di combattenti, vicino la Casa del Fascio, la locale sede del Partito Fascista, che si trovava di fianco a dove adesso c’è il CAD, davanti al tabaccaio. I militari tedeschi si arrendono ai partigiani, i quali fanno sistemare i 3 soldati deceduti, e li seppelliscono.

Nella notte, un maggiore tedesco, che aveva guadato il Brenta da Altichiero, giunse alla Casa del Fascio, in cerca di indicazioni, tenendo in mano una carta stradale ed una pistola. Trova però i partigiani, i quali, dopo il rifiuto di deporre l’arma, durante una sparatoria lo uccidono.

Sempre in questa giornata, venne requisita la polveriera posta nella Certosa di Vigodarzere, che i partigiani riusciranno a difendere, dal tentativo tedesco di farla saltare, in un attacco durato 5 ore avvenuto l’indomani, anche con l’aiuto di gruppi di Cadoneghe.

27 APRILE, UN GIORNO IMPORTANTE

Siamo al 27 Aprile, un giorno importante per la liberazione del Veneto. E’ in questo giorno infatti che le trattative per la resa dello stato fascista in Veneto giungono al termine. Nel convento del Santo, zona neutrale perché appartenente allo Stato della Chiesa, le forze del CLNAI (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia), fanno firmare al prefetto di Padova Menna ed al generale Pizzarini, alto Generale dell’RSI per il Veneto, la dichiarazione di resa, ed il rilascio di tutti i prigionieri in cambio di un salvacondotto per garantirsi la fuga dalla città senza essere fermati dalle forze partigiane. È a quel punto che parte l’insurrezione generale ufficiale per il Veneto.

Nel frattempo, a Vigodarzere, continuano gli atti di sabotaggio della ritirata. Vale la pena ricordare un episodio avvenuto presso la stazione ferroviaria.

L’ARRESTO DI 200 TEDESCHI

Un gruppo di partigiani formato da 5 persone, tra cui Cesare Pilli e Cicci Vettore, si era appostato nei pressi del passaggio a livello, dove adesso c’è il sottopasso che porta a Padova, prevedendo l’arrivo di un convoglio tedesco, che puntualmente si presentò. Cesare Pilli trattò in perfetto tedesco la resa col comandante, ed i 200 uomini del gruppo cedettero le armi, e vennero trasportati come prigionieri verso Saletto. Nel tragitto si imbatterono in 2 autoblinde con mitragliatrici che ferirono Cicci Vettore, che in seguito venne portato all’ospedale, dove rimase fino al 10 maggio. Una parte dei prigionieri venne tratta in salvo dalle camionette, gli altri continuarono da prigionieri la propria marcia fino ad una fattoria, dove vennero lasciati dai partigiani, i quali se ne andarono. Giunto il buio, i soldati tedeschi, visto che chi li aveva catturati non tornava, si dileguarono.

Sempre in questo 27 aprile, carico di avvenimenti, a Pieve di Curtarolo, venne ucciso Timante Ranzato, 30 anni, di Terraglione, nome di battaglia Gianni, Comandante del battaglione Sparviero della Brigata Garibaldi di Padova.

LA MISTERIOSA MORTE DI TIMANTE RANZATO

La storia di Timante Ranzato è interessante, inizia la sua carriera da partigiano il 10 settembre del 1943, quando, riesce a far evadere dal campo di prigionia situato a Pontevigodarzere, 3 soldati sudafricani, che rimasero con la sua famiglia fino al Natale dello stesso anno, quando vennero trasferiti ad Arsego, dove restarono fino alla fine della guerra. Nella sua carriera di combattente si notano varie azioni temerarie, come la liberazione di 23 detenute dal carcere del Paolotti, che adesso è una delle sedi della facoltà di Ingegneria di Padova, nell’ottobre del 1944, oppure il sabotaggio con esplosivi del ponte stradale su Pontevigodarzere, il 28 agosto del 1944.

Come è morto Gianni? Chi lo ha ucciso in una città liberata 3 giorni prima? Qui i racconti si fanno contraddittori, sono perlopiù di seconda mano: alcuni dicono che sia stato ucciso da un colpo partito da una siepe, altri dicono sia partito dal campanile, una persona dice che è stato ucciso il 25 aprile, mentre tutte le altre parlano del 27, addirittura un comandante del battaglione “Stella” della brigata Garibaldi afferma che è stato ucciso dai tedeschi che stavano attaccando. L’ipotesi che però condividono i più, sostiene che possa essere stato ucciso da degli altri partigiani, che si era inimicato negli anni della resistenza. Anche Padre Oddone Nicolini, conosciuto col nome di Padre della Forca, perché aveva assistito spiritualmente le vittime del rastrellamento di Bassano, poi impiccati agli alberi dei viali, riconosce il valore e l’onestà del comandante Gianni. Alla fine della guerra, a Timante Ranzato, verrà conferita postuma la medaglia d’argento al valor militare.

28 APRILE: TERRORE A SALETTO

La giornata del 28 aprile era stata di terrore per la popolazione di Saletto.

La frazione rimane tranquilla fino alle 17, quando alcuni partigiani sparano dall’argine della Maresana ad una colonna di tedeschi in transito, i quali rispondono al fuoco. I partigiani a quel punto fuggono, ma avevano scatenato le ire dei tedeschi.

I nazisti iniziano così un rastrellamento, dove verranno catturate più di sessanta persone. Nelle operazioni di ricerca moriranno Guido Munaron, davanti la moglie, sull’uscio di casa propria, ucciso dai tedeschi mentre chiedeva alla moglie di passargli un cappotto. Oggi sul luogo dell’omicidio c’è ancora un cippo a ricordarlo.

Contemporaneamente muore anche il cappellano di Saletto, Don Beniamino Guzzo, punto di riferimento per gli antifascisti locali. Anche in questo caso, le versioni dei racconti faticano a collimare, secondo alcuni infatti, viene proprio ucciso durante le operazioni di rastrellamento, come ci raccontano i testimoni del libro di Giulio Cesaro “Sul filo della memoria”, mentre Adriano Mansi, ricercatore presso l’università Tor Vergata di Roma, nel suo Atlante delle stragi Naziste e Fasciste, ci racconta che potrebbe essere stato ucciso da dei fascisti locali, con cui aveva dei dissidi dal 1922. Altri ancora dicono che nascondesse dei partigiani in casa, e che mentre bloccava la porta per farli scappare venne preso a mitragliate dai tedeschi. Sta di fatto che una volta ottenuto l’accesso all’abitazione ed aver constatato che non c’era nulla, gli assassini hanno lasciato morire dissanguato il cappellano. Anche in questo caso, un cippo ci ricorda la sua morte, in via Capitello.

La già tragica situazione era ad un passo dal trasformarsi in una strage. Sono le sei del pomeriggio, ed i sessanta abitanti di Saletto cui si accennava prima sono in fila sul muro della chiesa, contro di loro, le armi puntate di una ventina di SS. Il parroco, Don Antonio Moletta, cerca di trattare, offre la propria vita in cambio di quella degli ostaggi. Le SS però non capiscono le sue parole in italiano, o fingono di non capirle. Con uno stratagemma quindi riesce a far fuggire uno degli ostaggi, perché chiamasse Hilda Herchet, donna di origine austriaca e moglie di un abitante di Saletto, perché facesse da interprete. La donna arriva, fortunatamente accompagnata da un capitano tedesco, che era stanziato nella sua abitazione. Dopo una mezz’ora di trattative, si arriva all’immediato rilascio degli anziani e dei ragazzini presenti tra gli ostaggi, ed i 28 rimanenti vengono costretti alla costruzione di raccordi tra gli argini della Brenta, per aiutare la fuga tedesca.

Andarono avanti tutta la notte nelle operazioni di costruzione, ed alle 11 e mezza di sera si sentirono da Padova le campane, che annunciavano l’arrivo degli anglo-americani. Nei ricordi di uno dei testimoni a quel punto uno dei soldati disse “Siete fortunati, stanno arrivando i vostri alleati!”.

Passata la notte (siamo ormai a domenica 29 aprile) la situazione rimane tesa. I bombardieri americani sorvolavano la zona, ma non sganciarono ordigni, forse perché avevano individuato la presenza degli ostaggi. Verso le 6 e mezza di mattina i soldati tedeschi mandano quattro motorette in perlustrazione nella zona di Saletto, due alla volta, senza però che facessero ritorno. Ad un certo punto un comandante delle SS annuncia che andrà anche lui in perlustrazione, ma che se non avesse fatto ritorno, avrebbero dovuto fucilare gli ostaggi. La paura era tanta.

Si scoprì in seguito che uno dei soldati mandati in esplorazione era stato ucciso dai partigiani, sull’argine tra via Terraglione e via Villabozza, ed avevano nascosto il cadavere per evitare ulteriori rappresaglie tedesche.

Alle 9 di mattina, infine, il maresciallo delle SS radunò i civili e disse loro di andare a casa. Quell’incubo era terminato.

I MORTI DEL TERRAGLIONE

Questa domenica però non passerà senza chiedere un ulteriore contributo di sangue e si avrà l’ultimo scontro tra partigiani e tedeschi, nei pressi del Terraglione. Qui stava transitando una colonna tedesca, che viene bersagliata da un gruppo di partigiani. Nel contrattacco tedesco moriranno quattro persone: Aldinesco Piotto, Italo Maiolo, Luigi Severino Marcato, e Antonio Cesaro. Oggi un cippo ricorda il loro sacrificio.

Sempre durante la ritirata, i tedeschi uccideranno in via Ca’ Zusto Guerrino Cosma, il quale tenterà, da solo, di fermare il convoglio. Oggi un cippo ricorda l’accaduto.

Lunedì 30 aprile, alle 9.00 di mattina le campane di Vigodarzere suonarono a festa. La guerra a Vigodarzere era finita.

Nel cimitero di Vigodarzere, vi è la cappella, dove riposano i corpi di Piotto Aldinesco, Maiolo Italo, Malosso Ernesto, Ranzato Timante, Cosma Guerrino, Cesaro Antonio. Sopra di loro campeggia la scritta “CADDERO PER LA NUOVA ITALIA”. Viene da chiederci se siamo stati eredi credili del loro sacrificio. Oggi il nostro pensiero va a tutti quei popoli che stanno lottando e morendo per la loro libertà!

Fernando Salmaso, Edoardo Ranzato

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Il 25 aprile dell’ANPI a Cadoneghe e Vigonza

Due delegati ANPI hanno tenuto a Cadoneghe e Vigonza l’intervento ufficiale in occasione del 25 aprile.

Ecco i testi integrali

CADONEGHE, Milena Crotti, 25 aprile

Credo che quest’anno siamo indotti a riflettere più del solito sul significato del 25 Aprile, la data che segna la nascita della nostra democrazia.Le libertà individuali e collettive, le regole di convivenza tra le nazioni le abbiamo date così per scontate e ovvie da non renderci conto che potessero essere a rischio. Perfino i Paesi più riottosi della UE sembrano essersi improvvisamente ricordati del Manifesto di Ventotene, per un’Europa libera e unita, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, quando i due intellettuali si trovavano al confino, condannati dal regime fascista.Forse vale la pena ricordarci sempre che niente è scontato e che c’è chi ha pagato caro per la nostra libertà.Quando, andando verso la Castagnara, giro per via Guido Franco, guardo sempre il ritratto di quel giovane, Guido Franco appunto, condannato a morte dal Tribunale speciale fascista, torturato e fucilato a 22 anni con altri due compagni di lotta il 15 Aprile del ’45 e mi chiedo se possiamo dire di aver pagato il debito che abbiamo contratto con coloro che hanno dato la vita per liberarci dall’occupazione nazista e dal regime fascista che per 20 anni aveva conculcato la libertà nel nostro Paese.Non è con la retorica sulla Resistenza che vogliamo capire se e quanto abbiamo pagato il debito perché come diceva un partigiano, Italo Calvino, “non è detto che fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano”. Ma resta il fatto, per riprendere una dichiarazione sempre di Italo Calvino che “dietro al peggiore dei partigiani c’era una idea giusta e dietro al migliore dei fascisti una idea sbagliata”.E non solo non erano santi tutti i partigiani, ma non erano neppure uniti da un’unica prospettiva, da un’unica idea su come e con quali regole andasse ricostruito un Paese distrutto dalla guerra. Ma al di là delle differenze avrebbero potuto sottoscrivere tutti, comunisti, cattolici, azionisti, socialisti e liberali il verso della canzone: “libertà è l’idea che ci avvicina”.La ricerca del bene comune e la coscienza che un regime democratico si fonda sulla convivenza e sulla dialettica tra posizioni diverse quanto legittime hanno prodotto quella carta straordinaria che è la nostra Costituzione. La Costituzione è il dono impegnativo che ci hanno regalato le donne e gli uomini della Resistenza. È straordinaria perché progressiva, perché avverte, per esempio, tutti noi che per l’eguaglianza dei diritti e per la giustizia sociale c’è ancora molto da fare.Abbiamo meritato il dono? Abbiamo pagato il debito? Non del tutto, ma in parte sì. Abbiamo resistito a chi ha cercato di sovvertire il nostro sistema democratico, a oscure trame, ai terrorismi di opposte ideologie. L’Italia con gli occhi aperti che resiste c’è stata e c’è ancora.Certo che le madri e i padri costituenti che hanno scritto l’articolo 3, sull’uguaglianza, avrebbero avuto difficoltà a credere che oggi, 74 anni dopo il primo gennaio del 48, le donne a parità di funzione guadagnino meno degli uomini o che giovani nati in Italia, residenti in Italia, scolarizzati in Italia non abbiano diritto alla cittadinanza. (Secondo alcuni dovrebbero dimostrarsi competenti sulle ricorrenze e sulle feste patronali, se così non fosse molti residenti stranieri non avrebbero diritto alla cittadinanza e io, per esempio, la perderei di colpo).Se il compito che ci hanno trasmesso le madri e i padri costituenti non è compiuto ciò è dovuto almeno in parte a una mancata coscienza collettiva del significato profondo dell’atto fondativo che ci ha unito a suo tempo e che può unirci ancora.Qualche anno fa uno storico, Guido Crainz, si era chiesto perché il 25 Aprile non sia diventato per gli Italiani quello che è il 14 luglio per i Francesi o il 2 luglio per gli Americani . Non so rispondere alla domanda ma se ogni società ha bisogno di un momento storico e insieme simbolico per riconoscersi in una unità e in una identità collettiva il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani ed è insieme orgoglio e impegno di ciascuno e di tutti.

VIGONZA, Antonio Giacobbi, 25 aprile

Ringrazio l’amministrazione comunale di Vigonza per aver organizzato questa celebrazione e per aver invitato l’ANPI come ogni anno. Al sindaco poi un ringraziamento particolare perché è stato l’unico dei tre sindaci dei comuni in cui si articola la nostra sezione ANPI- Battaglione Sparviero ad intervenire al nostro congresso qualche mese fa.Il 25 aprile è una giornata di festa per tutti, così deve essere. Ma quella di quest’anno è oscurata dalla guerra, una guerra terribile, come tutte le guerre, che ci angoscia di più forse perché la sentiamo più vicina di altre che colpevolmente abbiamo ignorato. Ma anche perché, più di altre, avvertiamo non solo con il cuore ma con la ragione che il rischio di una guerra nucleare non è più così lontano.L’ANPI, lo voglio sottolineare con forza, ha condannato subito, il 24 febbraio, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, senza se e senza ma. Putin è responsabile di una politica imperiale, dei morti e della distruzione di un paese sovrano, oltre che del rischio di portare l’Europa e non solo l’Europa sulla soglia di una guerra non controllabile. L’Europa e l’Occidente sapevano che in quelle aree geografiche vi erano problemi che avevano già creato tensioni e anche combattimenti. Si sarebbero dovute cercare da tempo soluzioni attraverso il dialogo e la diplomazia, cosa che non è stata fatta. Non tocca a me dire altro né indicare cosa fare, ma permettetemi di dire che, pur nella convinzione che bisogna aiutare la resistenza degli ucraini, vivo con timore quella che Piero Ignazi sul “Domani” di qualche giorno fa chiamava “esaltazione bellicista” e annotava che “si usano parole a sproposito – genocidio – e si alza il livello dl del conflitto militare, mentre di de-escalation non vi è nemmeno l’ombra”.È con questo stato d’animo che oggi, come ogni anno, celebriamo l’anniversario della liberazione che, come ha detto il presidente Mattarella, deve essere un appello alla pace. Ed è importante che non si consideri questa celebrazione un evento rituale. Ad ogni anniversario è invece necessario ricercare e ribadire le ragioni che fanno di questa festa occasione di riflessione sulla nostra democrazia, che è stato il primo e immediato esito della Liberazione.Celebrare il 25 aprile è un dovere civile.E il dovere della memoria, innanzitutto.Un paese non può andare lontano e progredire se non sa conservare la sua memoria, se non porta con sé e custodisce con cura la sua storia. E la storia che ricordiamo oggi è quella che ha portato il nostro paese fuori dalla guerra e dalla dittatura. Perché quella scatenata da un regime che si è imposto fin dal suo inizio come una dittatura è stata una guerra di aggressione. C’è un rapporto quasi di causa effetto tra una dittatura e la guerra, perché un potere che si afferma senza democrazia è inevitabilmente portato a considerare solo sé stesso e la sua volontà di espansione e di dominio su altri popoli. È anche, se ci pensate, il potere di Putin: senza democrazia. Per questa ragione è inaccettabile che si riabiliti il fascismo considerando che, come sostengono alcuni, “finoalle leggi razziali e alla guerra ha fatto anche qualcosa di buono”.“I treni che arrivavano in orario – ha detto Liliana Segre – erano quelli che deportavano gli ebrei nei campi di concentramento”.La memoria che dobbiamo conservare, e la dobbiamo conservare sempre, e lo dobbiamo dire ai nostri ragazzi, è quella di un regime che ha privato il paese di libertà, che ci ha condotto ad una guerra drammatica alleandosi in modo servile e infame con la Germania nazista, che è stato sconfitto non solo dagli eserciti alleati ma anche grazie al contributo determinante, come hanno riconosciuto i comandanti militari alleati, delle decine di migliaia di uomini e donne, tante donne, che hanno combattuto in vari modi il fascismo, prima e durante la guerra, e anche con le armi dopo il settembre del ’43.Ma consentitemi di richiamare un’altra ragione che ci chiede di mantenere la memoria. Perché non possiamo negare che il fascismo ha avuto ampio consenso per molti anni, e lo ha avuto non solo perché aveva impedito ai partiti di opposizione, alle associazioni non gradite al regime, alla stampa, di essere liberi e di esercitare la loro funzione. C’è stata, lo dobbiamo ammettere, adesione popolare e, quando non c’è stata adesione, c’è stata indifferenza. Tanta indifferenza.Liliana Segre nel 1938 aveva 8 anni e frequentava la scuola. Da un giorno all’altro venne espulsa perché ebrea: così era stato disposto dalle leggi razziali volute dal fascismo e firmate dal Re. In un intervento all’Università di Padova (che vi suggerisco di ascoltare e di fare ascoltare ai vostri figli e nelle scuole, trovate il video se digitate Liliana Segre cosa significa una legge razziale) raccontava con tristezza l’indifferenza delle sue compagne, delle loro famiglie, dei vicini di casa, perfino di molti amici. Ricordava in altra occasione che suo padre assunse una insegnante che la seguisse a casa e, racconta, “Quando entrò in casa non mi abbracciò, e mi disse: non è colpa mia”. Ecco l’indifferenza. Non possiamo ignorare che esiste ed è diffusa anche tra la nostra gente, che pure è un popolo che pratica molte esperienze di volontariato.Poi c’è il dovere della riconoscenza. La dobbiamo a chi ha combattuto, anche con le armi, contro i fascisti e contro i nazisti che avevano occupato il nostro paese, prima e dopo l’8 settembre del ’43.Fu un contributo importante sul piano militare, come ricordano gli storici, anche di fonte tedesca. Lo stesso maresciallo Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Italia, nelle sue memoriescrive che l’azione partigiana si era sviluppata in forma «affatto inattesa», diventando «per il comando tedesco un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di importanza capitale. All’inizio era possibile servirsi unicamente di reparti di fanteria, ma quando la lotta si andò inasprendo le migliori truppe dovettero venir impegnate nella lotta contro i partigiani», la cui forza lo stesso Kesselring stimava in circa 100. 000 uomini nell’estate del ’44, e 2-300 mila nel marzo-aprile del ’45.Ma c’è un terzo dovere, forse il più importante, a cui ci richiama i25 aprile.Dobbiamo alla Resistenza, alla guerra di liberazione, la nostra Costituzione. Lo ha detto con parole nette Piero Calamandrei, uno dei padri Costituenti, in un celebre discorso ai giovani nel 1955,parole che è bene ricordare a chi se ne è dimenticato: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostracostituzione”.Già allora Calamandrei richiamava un dovere. E lo faceva citando non a caso l’art 3 della Costituzione.Si compone di due commi.Il primo recita, e sono parole scolpite nella roccia: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinionipolitiche, di condizioni personali e sociali”.Netto. Forte. Preciso. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”.Ma poi il secondo comma aggiunge: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo dellapersona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.Ed è sempre Calamandrei che commenta il secondo comma:“Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Quando dice: E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, riconosce chequesti ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisognamodificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani”. Parlava ai giovani nel 1955, oltre 60 anni fa.Cosa direbbe oggi? Certo riconoscerebbe che molti diritti sono stati riconosciuti, che diversi ostacoli sono stati rimossi, che una lunga strada è stata percorsa verso una maggiore dignità ed uguaglianza, ma dovrebbe con amarezza constatare che molta, troppa strada è ancora da fare.In un volumetto pubblicato tre anni fa che vi invito a leggere, “Lettera a un razzista del terzo millennio”, Don Ciotti riporta alcuni dati del rapporto Oxam del 2019 relativo alla situazione sociale del nostro paese alla metà del 2018: il 5 % della popolazione possiede una ricchezza pari a quella del 90% più povero. E ricorda che “venti milioni di italiani – uno su tre – sono analfabeti funzionali, cioè – secondo la definizione dell’Unesco – incapaci di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie potenzialità. “Sul piano dell’uguaglianza non ci siamo dunque. Quello che la Costituzione ci dice di fare, ancora non lo abbiamo fatto.Questo è il terzo, grande dovere al quale ci richiama la celebrazione del 25 aprile.La nostra – ricordava ancora Calamandrei – “ è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, lelibertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche, dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società”.Per questo è fondamentale celebrare il 25 aprile. Che non è una festa di parte, ma è, deve essere, una festa del popolo, di tutti i cittadini.Solo qualche anno fa un ministro della Repubblica fondata sulla Costituzione nata dalla lotta di liberazione riduceva il 25 aprile ad una sorta di derby tra fascisti e comunisti. Vergogna. Nel migliore dei casi non conosce la storia e non sa, o non comprende, che alla lotta di liberazione hanno partecipato donne e uomini di idee politiche diverse, dai cattolici, ai comunisti, ai socialisti, ai liberali, ai monarchici, agli azionisti.C’è chi sostiene che il nostro paese non ha fatto fino in fondo i conti con il fascismo. Non sono d’accordo: i conti li abbiamo fatti, sono costati sangue ai nostri partigiani, a uomini e donne, ma liabbiamo fatti e li abbiamo chiusi nel 1945.Ma è vero, purtroppo, che non siamo ancora riusciti a far sì che il valore della democrazia, della dignità per tutti, della tolleranza, della legalità, dell’antifascismo, siano patrimonio condiviso e consapevole. È un impegno che ci dobbiamo prendere e confermare anche in questa occasione e che ci convoca tutti, come cittadini, come istituzioni, come scuola, come amministrazioni comunali.Grazie dunque signor sindaco, grazie a Vigonza.Viva il 25 aprile, viva la Resistenza, viva la Costituzione.

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Due incontri con gli autori proposti dall’ANPI

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25 APRILE 2022: IL PROGRAMMA UFFICIALE DELLE CELEBRAZIONI DEL COMUNE DI CADONEGHE.

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